Wednesday, March 2, 2011

FOLD!

AFB Forum '08 - Paolo Fabbri
Martedì 17 Novembre 2009


Vorrei iniziare facendo riferimento a un libro dello storico dell’arte James Elkins, Dipinti e lacrime, storie di gente che ha pianto davanti a un quadro[1]. In questo libro Elkins affronta un tema particolare, quello di capire se in genere le persone abbiano mai pianto davanti a un quadro. Tutti noi conosciamo persone che piangono al cinema o mentre leggono un libro, ma per quanto riguarda i quadri la discussione ancora aperta. A testimonianza di questo, l'autore riporta alla fine della sua ricerca un’inchiesta molto divertente svolta su storici dell’arte, come per esempio Ernst Gombrich, ai quali viene chiesto se hanno mai pianto davanti a quadro e la risposta, generalmente, è no. Elkins, partendo proprio dalla negatività di queste risposte, propone una riflessione sulla relazione tra la percezione, la sensibilità, l’esperienza e il nostro corpo, cercando di capire se la nostra capacità di muoverci o com-muoverci sia in qualche modo possibile davanti a forme artistiche diverse. A questo proposito, una domanda che mi sembra interessante porsi è: qual è il tipo di attività sensibile, oltre che concettuale, che richiama un’opera? Questo interrogativo si sposa bene con il libro di Elkins. Un altro spunto di riflessione proposto da Elkins è quello relativo allo studio delle immagini che vengono considerate tecnicamente artistiche e quelle che, a fatica, l'autore definisce “non-arte”. Elkins parte infatti dal presupposto che anche le fotografie di carattere scientifico siano in realtà debitrici nei confronti della storia dell'arte (ad esempio, alcune foto scientifiche non sarebbero mai state tali senza l’opera dell’action-painter Jackson Pollock). Elkins, negando che esista un campo affidato alle arti e un campo affidato alle “non-arti”, estende il concetto stesso di “arte” fino alla dimensione scientifica dei saperi. In altri termini, l’idea di Elkins si avvicina al pensiero del filosofo del linguaggio Nelson Goodman, secondo il quale il problema non è “che cos’è l’arte?”, domanda ontologica cui avrebbe qualche problema a rispondere, ma, semplicemente, “quando è arte?”. La questione centrale per Goodman sta quindi nel capire in quali circostanze gli oggetti artistici possano funzionare come non-artistici e viceversa quando gli oggetti non-artistici, come ad esempio foto di scienza, possano essere definiti artistici. Si apre così uno spazio di riflessione, non ontologico ma pragmatico, ricco di “scontri” che possono capitare e che sembrano interessanti. La riflessione sulle immagini condotta da Elkins ci fornisce in ogni caso uno spunto per affrontare il tema dell'intelligenza estetica.

All’inizio del secolo scorso, il politico francese Georges Clemenceau, ha affermato l'esistenza degli intellettuali durante un feroce dibattito politico. La parola “intellettuale” da aggettivo è diventata, all’inizio del secolo scorso, un sostantivo indicante per definizione chi fa esercizio di intelligenza. L’idea che l’intellettuale sia un individuo risale quindi alla belle epoque, quando sull'affare Dreyfuss si creò un grande dibattito di carattere politico, che affrontò la problematica della figura dell’intellettuale.

Con molta probabilità, sbagliamo nell'individuare un’opposizione tra la spiegazione, che sarebbe razionale e logica, e la comprensione, attribuendo invece a quest'ultima l’intersoggettività, la sensibilità e l’affetto. Credo che sarebbe molto grave se pensassimo che da una parte ci fosse solo il comprendere, dall’altra lo spiegare, in quanto ridurremmo il “concetto” a qualche cosa che, in qualche modo, ha perduto il precetto e l’affetto. Com’è quindi possibile articolare fra loro la spiegazione e la comprensione? La mia soluzione è molto semplice, forse un po’ irritante: bisogna spiegare di più per capire di più. Un incremento della spiegazione non va a scapito della comprensione, è anzi un suo approfondimento. Se facciamo questo, ci liberiamo con un gesto di tutta una serie di opposizioni ottocentesche. Ecco il punto: è l'idea secondo cui prima c'è il comprendere e poi lo spiegare che ci impedisce di piangere davanti ai quadri!

Vorrei dare un’applicazione di ciò che affermo parlando del volto.

Attraverso il volto, indubbiamente, noi riconosciamo delle forme di sorpresa. È sufficiente prendere delle emoticons (che sono standardizzazioni di volti) per avere una tipologia di espressione, come per esempio il modo di incurvare la bocca o di alzare gli occhi, o di stringere il naso. Le emoticons sono quindi la trascrizione semplificata di un lungo sapere di tipo fisiognomico.

È anche possibile fare una correlazione tra il volto e la nostra idea tripartita di società: nella nostra società ci sono quelli che stanno sopra e che hanno il potere e l’intelligenza; ci sono poi i soldati, quelli che combattono; per finire ci sono gli agricoltori, quelli che si occupano della riproduzione. Questa tripartizione può essere applicata benissimo anche alla nostra faccia: la parte alta della faccia (la fronte etc.) è l’intelligenza, la parte bassa (denti, bocca mento) la sensualità. Poi c’è l’orecchio; quelli che hanno l’orecchio molto alto (o rivolto verso l’alto) sono intelligenti, quelli che hanno il lobo molto pesante sono agricoltori, pesanti e riproduttivi. È sufficiente quindi avere un modello molto semplice di comprensione e correlarlo a una verticalità del corpo, del viso o addirittura dei dettagli. Nel naso, per esempio, la parte più alta denota più intelligenza, la parte più carnosa più sensualità, e così via. Questa strategia di rappresentazione del volto riposa quindi su un modello che in effetti usiamo ancora.

Nel volto riconosciamo le emozioni, il volto trasmette al massimo la dimensione emozionale, riconoscibile anche negli oggetti. Spesso le barche hanno degli “occhioni”, così come le automobili: tutte le cose prendono una faccia. Se ciò che ci sta davanti ha un certo tipo di movimento, automaticamente gli si da una faccia, una inter-faccia necessaria. Come è vero, quindi, che il volto sta in un corpo, è altrettanto vero che i corpi stanno fra i corpi e che quindi l’intelligenza è un interligere, intelligere, ovvero è un “capire insieme”, come d'altra parte “discutere” vuol dire scuotere insieme qualche cosa. L’idea del volto ha un problema preciso: il volto è un pezzo della testa, a cui è stata delegata una serie di funzioni. All’inizio del Novecento, una delle prime cose che sono state fatte è stata quella di liberarsi del volto: tutte le teste sono diventate solo teste, senza faccia. La testa ha ripreso il posto dei volti. Vorrei fosse possibile immaginare il contrario dicendo, per esempio, che tutto il corpo possa essere volto, divenendo così espressivo.

Allora, che cos’è il volto? Francamente è il senso comune, ma anche l’ordine imposto al viso. Il volto è un ordine di lettura, ha un aspetto normativo nella sua imposizione. A scuola, per esempio, si insegna a tenere la faccia, non a tirar fuori la lingua o a strizzare gli occhi. Il volto è un luogo altamente educato, quindi l’arte ha anche la funzione, non solo di rappresentarlo, ma di liberarlo. La deformazione dei volti, che la storia dell’arte definisce la caricatura, è uno dei luoghi più appassionanti della storia dell’arte. Non a caso, Gombrich, che ho citato prima, come anche Werner Hofmann, un altro grande studioso tedesco, hanno scritto moltissimo sul volto e sulla caricatura. La caricatura è un luogo dove si esprime tutta la libertà ironica rispetto al volto. Il filosofo francese Gilles Deleuze, che ha prodotto il “Diagramma di Foucault”, ha detto una cosa molto curiosa: “Cos’è il tic? Una deformazione del volto[2]”. Gli artisti, i ballerini, il teatro giapponese con la rivoluzione degli occhi, la danza indiana Kathakali con le sue le modifiche straordinarie del viso: tutte queste espressioni artistiche hanno sempre lavorato a liberare il volto dall’ordine del luogo comune. Riconducendoci a Deleuze possiamo considerare un tic come un tentativo di liberarsi dall’ordine del viso. In realtà il filosofo francese è più sottile e definisce il tic come il “bloccaggio di questa libertà”, ci sono momenti quindi in cui il volto vuole liberarsi dal suo ordine, solo che, in quel momento, l’ordine ritorna. Nello scrivere un libro sul filosofo francese Michel Foucault, Deleuze ha scritto: “Qual è la sua teoria della percezione? Quella che consente esattamente la problematica del mondo sensibile[3]”. Deleuze, ha disegnato di sua mano, assieme a sua moglie, Fanny Deleuze, il citato diagramma di Foucault, che lui chiama esplicitamente “diagramma” a partire dalle teorie semiotiche di Charles Sanders Peirce, e ha detto: “Ecco il modello percettivo di Foucault”.




Il diagramma rappresenta il modo in cui, secondo Deleuze, funziona l’organizzazione di un’intelligenza e di un sapere che tiene conto della percezione.

Immagine1

1 – Linea del fuori 2 – Zona Strategica 3 - Archivio 4 - Piega

Gli eventi riportati in alto nel diagramma sono delle singolarità, sono gli eventi che accadono e che devono entrare dentro di noi. La grande linea in alto che mostra alcuni punti, è quella che separa la percezione, l’esterno del mondo, dal suo interno. Perché è una linea? Perché come tutte le linee ha due facce; per quanto sottile la possiamo disegnare, su questa linea c’è il luogo di quel fuori che diventa dentro e di quel dentro che è ancora fuori. Noi siamo parte del mondo e il mondo è parte di noi. La percezione è, in qualche modo, uno scambio mutuo, un' idea vecchia della fenomenologia classica. Questi piccoli eventi singolari sono inseriti in quello che Deleuze chiama la “zona strategica”, è la zona degli interessi, delle curiosità, delle passioni che riorganizzano quest’esperienza in funzione di problemi anche di potere. Per Deleuze, quindi, questa è la zona del potere, che è quello che organizza, in funzione di bisogni, necessità, curiosità e desideri la percezione esterna. I due rettangoli a destra e a sinistra sono quello che lui chiama “l’archivio audiovisivo”: questi elementi, queste singolarità, si integrano dentro i nostri saperi, diventano, per esempio, le nostre enciclopedie. Queste sono zone enciclopediche. Colgo l'occasione per ricordare una cosa interessante: l’enciclopedia è seducente perché è un anti-trattato, un dizionario organizzato secondo quell'arbitrario affascinante che sono le lettere alfabetiche. In Cina, per esempio, durante le Olimpiadi, i diversi Paesi erano completamente rovesciati rispetto alle nostre attese, perché evidentemente in Cina l’ordine alfabetico è completamente diverso, quindi l’Albania non era affatto prima, e l’Italia non stava in mezzo, gli USA non erano in fondo. L' “archivio audiovisivo” è mediato da questa strana forma che somiglia moltissimo a un’impronta digitale. Le impronte digitali, infatti, sono tutte fatte di pieghe, in cui la cosa più lontana, cioè l’estremo di un elemento, diventa la più vicina; quando si prende per esempio una retta e la si piega, il massimo lontano viene ravvicinato e la piega rappresenta, senza confusione, la possibilità di portare il lontano al massimo della vicinanza. Il quadro rappresentato nel diagramma è la zona di soggettivazione, la soggettività, il luogo della percezione dove si instaura un soggetto. Un soggetto, dice Foucault, è una piega. Un soggetto è un luogo di piega. Il mondo entra nel nostro mondo percettivo attraverso questa piega esterna-interna in cui la soggettività, che è la sola che può mediare tra il visibile e il dicibile, si articola in forma di piega ed è la sola che è in grado di ravvicinarli.

Per concludere vorrei semplicemente affermare che i filosofi, quelli che hanno un pensiero cosiddetto “concettuale” e non “percettivo”, non sono affatto delle persone astratte. Questo diagramma non è un’astrazione, in quanto esiste una dimensione molto concreta, che è quella della sua realizzazione. Penso che se ne potrebbe fare un oggetto per studenti. Tutti noi ci dimentichiamo alcune cose: che i concetti sono fatti, costruiti; che ci sono delle immagini di pensiero; che ci sono dei personaggi di pensiero; che i concetti riposano su di un piano di consistenza. Le immagini di pensiero hanno un piano di consistenza abitata da concetti, e i concetti sono piccole macchine, macchine funzionanti, oggetti articolati.

[1] Elkins J., Dipinti e lacrime, storie di gente che ha pianto davanti a un quadro, Bruno Mondatori [2007].

[2] G.Deleuze, F. Guattari, Millepiani, Castelvecchi [2003].

[3] G. Deleuze, Foucault, Cronopio [2002].

No comments:

Post a Comment