Wednesday, August 24, 2011

toshio matsumoto





TOSHIO MATSUMOTO
La sovversione dell’immagine
Il sessantotto giapponese?

Era militante, satirico, armato di tutto punto, gay e travestito. Dopo un’apparizione a Fuori Orario, Sulmona cinema Film Festival (6-11 novembre) rende omaggio a un classico della controcultura mondiale, «Il funerale delle rose» (1969). È il capolavoro di Toshio Matsumoto artista sperimentale che ci racconta la sua biografia, dall’iniziale, contrastata, passione per la pittura, ai cortometraggi, dai documentari ai lungometraggi alla videoarte

TOKYO Iniziata negli anni 50, quella di Toshio Matsumoto, è una carriera che nell’arco dei decenni ha spaziato dai documentari degli inizi, ai (pochi) lungometraggi, fino alla parte più cospicua dell’opera che è quella dei corti sperimentali e della videoarte (che si possono vedere sul sito Ubu Web).
Grande filosofo dell’immagine, ciò che risplende costantemente lungo tutto il percorso creativo di Matsumoto, è la volontà di rovesciare gli schemi, di mischiare le carte, di crearne di nuove. Esperienze di visione in cui si riscopre un tempo ciclico, con le immagini che sono oscillazioni d’intensità, come nelle ondivaghe sequenze iniziali di Ishi no uta, nel «caosmo» di Bara no Soretsu, («Corteo funebre delle rose», del 1968 che, dopo una folgorante nottata su Fuori Orario, si vedrà sul grande schermo a Sulmona cinema Film Festival) oppure nei corti For the damaged right eye o Ecstasis. Essendo anche un affascinante teorico, Matsumoto rischia, in certe opere successive all’altro cult movie Shura («Bloodshed»), 1972, polanskiano racconto di samurai tratto dal testo kabuki di Nanboku Tsuruya, a cavallo fra i 70 e gli 80, di diventare troppo teorico e astratto, come succede allo splatter-horror Dogura Magura (’88). Invece è proprio quando il suo cinema si genera e agisce sul tessuto del reale (pensiamo a War of 16 del 1973, il documentario su Toyokawa, la città distrutta dalle bombe Usa durante la II guerra mondiale) che abbiamo i risultati migliori; gli scontri, le manifestazioni in piazza contro il trattato di alleanza nippoamericano di fine anni ‘60, l’esplorazione di zone e condizioni di vita minoritarie (Nishijin, Ishi no uta, Hahatachi ) e naturalmente la somma/summa di tutto ciò che è Bara no Soretsu. Qui tutti i codici, tutti i generi sono attraversati, ma mai con vuota artificiosità, fra il biancore latteo delle prime scene, fino all’accecamento/dissoluzione finale (consimile al Salomé di Bene) c’è di tutto e la negazione di tutto, il comico, il drammatico, l’avanguardia, il sociale, il delirio, il sesso, la facezia; perché come ci suggerisce la citazione finale da Rene Daumal «lo spirito di un individuo raggiunge il suo assoluto attraverso un’incessante negazione ».
In una lunga intervista concessa a Aaron Gerow durante il «Yamagata International Documentary FilmFestival» ToshioMatsumoto racconta la sua biografia artistica a cominciare dalla sua iniziale passione per la pittura (la traduzione è mia e di Elisabetta Montiglio).

1. La pittura. «Sì, amavo dipingere.
Ho dipinto fin dalla scuola media, ma il Giappone era molto povero e io stavo per cominciare le scuole superiori, erano i primi anni 50. Entrare nel mondo della pittura significava allora non riuscire a sfamarsi.
Nonostante io lo volessi molto, i miei genitori si opposero fermamente a una mia eventuale carriera scolastica nelle scuole d’arte, tanto da minacciarmi di non pagare le rette. A quel tempo non c’erano le possibilità di lavorare part-time come ora, quindi rinunciai alla scuola d’arte e mi iscrissi al corso di medicina all’Università di Tokyo perché ero interessato ai disturbi mentali come la schizofrenia. Anche se in fondo il corso nonmi dispiaceva, pensai che avevo una sola vita da vivere a che avrei seguito la strada artistica. Senza dirlo ai miei genitori cambiai indirizzo e frequentai arte e storia nella Facoltà di Letteratura. Ma a Tokyo non c’erano delle classi dove ti insegnavano come dipingere, quindi studiai teoria dell’arte e storia nella scuola, e pittura da solo.
Nei miei studi venni a conoscenza che in Europa negli anni 20 c’era stato un cinema d’avanguardia che era stato a sua volta in diretta relazione con l’arte contemporanea. Fu una grande sorpresa per me e, benché non potessi vedere questi film in Giappone, ne lessi le descrizioni in articoli e libri e capii che questa zona in cui si sovrapponevano arte visiva e cinema era ciò che avevo a lungo cercato».
2. Cinema o prigione? «Ovviamente amavo i film e andavo al cinema molto spesso già al tempo delle scuole medie e superiori.
Fui persino trattato come se fossi un giovane delinquente e venni arrestato due volte dalla polizia di Shinjuku perché non ero andato a scuola. Adoravo talmente i film che chiesi a un mio amico di prestarmi il suo pass; ne aveva uno perché suo padre lavorava nel teatro, e promisi di restituirglielo ogni qualvolta volesse andare al cinema. Frequentavo la scuola fino a mezzogiorno e poi andavo subito a Shinjuku, dove mi guardavo un film dopo l’altro, e ero lì a ogni prima visione, spostandomi da una parta all’altra della città. Questo significava che vedevo praticamente tutti i film che uscivano a Shinjuku ».
3. Il neorealismo. «Vedevo film di qualsiasi genere, compresi vecchi film di repertorio. Ne vedevo centinaia in un anno...
adoravo il cinema. Ma desiderai diventare regista solamente quando, come dicevo, incontrai il mondo dei film sperimentali.
Fino ad allora mi piaceva il cinema dalla prospettiva dello spettatore; il desiderio di fare film venne più tardi. Fu proprio tra la fine delle scuole superiori e l’inizio dell’università che i film del neorealismo italiano arrivarono in Giappone e mi influenzarono.
Ne fui colpito come non era mai successo prima. Non so come dire...
sentivo che avrei dovuto veramente pensare più seriamente a un tipo di cinema che potesse unire completamente realtà ed espressione e coinvolgere gli spettatori. Quindi il mio punto di partenza fu il neorealismo italiano, lo sperimentalismo, l’avanguardia e i documentari.
Questi generi mi affascinavano moltissimo, ma fu a questo punto che si presentarono dei problemi. Benché trovassi la libertà del mondo immaginativo e senza inibizioni dell’avanguardia estremamente attraente, questo era un mondo chiuso, i documentari, d’altro canto, benché fossero molto legati alla realtà, non trattavano in modo esauriente gli stati mentali ed erano così dipendenti dal contesto temporale che non sarebbero stati attuali in uno diverso. Mi chiedevo se il punto di scontro tra i limiti e i punti di forza dei due generi non potesse rappresentare una nuova tematica per il cinema».
4. Ricominciare da Resnais.
«L’idea di partenza fu quindi quella di studiare questo tipo di cinema immaginativo, partendo da Guernica di Alain Resnais.
Detto ciò, è basilare tenere sempre ben a mente le caratteristiche essenziali del mezzo cinematografico: la qualità di documento e il senso della realtà. Forse oggi ci sono molte immagini che si possono creare senza l’ausilio di una cinepresa; ma fondamentalmente, finché la si utilizza, davanti a noi c’è una realtà. Il primo problema da affrontare quando si inizia un film è l’approccio del rapporto triangolare tra la realtà oggettiva, il mondo dell’espressione e la manipolazione soggettiva del regista.
(...)La prima cosa che girai fu Ginrin , creato e prodotto assieme a Yamaguchi Katsuhiro e Takemitsu Toru che all’epoca era ancora sconosciuto. In effetti era un film di promozione ma allo stesso tempo relativamente d’avanguardia.
Ricevette molte attenzioni dal mondo artistico e circa dieci anni fa, in occasione di una retrospettiva sull’Avanguardia giapponese degli anni 50 presso il Centro Pompidou, il presidente chiese di proiettarlo.
Le persone coinvolte allora si erano separate e la casa che lo aveva prodotto era fallita, così nessuno fu in grado di trovarlo, benché fosse di un certo valore.
Ritengo che il pezzo di musique concrete composto da Takemitsu fosse probabilmente il primo in assoluto ad essere utilizzato in un film giapponese, per questo motivo era molto prezioso ed è uno scandalo che il negativo sia andato perso».
5. I critici-registi. «Non c’erano in quegli anni critici nel mondo cinematografico che potessero avere una visione generale dell’epoca, e troppi orrori accadevano nell’industria affinché i registri potessero starsene calmi.
In particolare, nel caso del Giappone, c’era il problema della responsabilità della guerra. Persino la letteratura e l’arte erano fortemente influenzate dallo Stato durante la guerra. Coloro che realizzavano film di propaganda nazionale, collaborando così allo sforzo bellico, fecero una netta inversione di marcia quando gli americani arrivarono alla fine della guerra, e in un batter d’occhio iniziarono a girare film democratici.
Questo era strano perché i registi lo fecero senza conflitti interni, senza palesare la loro responsabilità per la guerra.
Sia prima che dopo il conflitto realizzarono film in linea con l’orientamento dominante nella società o nel governo, senza indagare a fondo sulla loro posizione in questo contesto. Nel mondo cinematografico in particolare, le persone non si assunsero la propria responsabilità personale per la guerra. Ciò che rovinò il cinema giapponese del dopoguerra fu proprio la capacità di fare immediatamente film democratici, fingendo ignoranza in merito al passato. Per questo motivo, persino per quanto riguarda il realismo, non ci fu differenza tra il realismo dei film militaristi che incitavano alla guerra e il realismo delle pellicole democratiche del dopoguerra. Solamente il tema era cambiato. Era necessario parlare di questo inganno e affrontare il tema di una riforma del cinema giapponese partendo dalla struttura base dell’espressione e dalla consapevolezza di ciò. Poiché non c’era nessuno che facesse questo, finii io con lo scrivere testi critici. Feci di tutto: film, critica, teoria, mobilitare e organizzare.
Poiché nessuno organizzava proiezioni cinematografiche, feci anche quello.
Tutto. Fino ad allora i documentari erano realizzati grazie al sostegno dei sindacati o del partito comunista. Se si voleva fare qualcosa di diverso, era necessario creare una struttura di supporto totalmente differente poiché non c’erano le basi finanziarie per fare o divulgare questi film. Si era costretti a iniziare da lì. Proprio allora, dopo la battuta d’arresto del Trattato di Sicurezza Nippo- Americano del 1960, girai il documentario Nishijin con il sostegno della «Kyoto Society for Viewing Documentary Cinema», una società per il sostegno dei documentari, che ovviamente era di sinistra, ma non era ancora ciò che si poteva definire una organizzazione politica vera e propria.
Credo fossero i primi a tentare di conquistare nuovi spettatori e realizzare film che loro stessi sarebbero andati a vedere.
Inizialmente proposi qualcosa di simile a ciò di cui ho appena parlato, ed ebbi il via libera da loro per occuparmi di Nishijin, un quartiere di Tokyo, con lo scopo di dare forma a qualcosa di profondamente sommerso, danneggiato e difficile da esprimere.
Non era mia intenzione cercare di rappresentare il luogo o le persone del posto, bensì dare vita alle voci pesanti, silenziose e inespresse che lì si celavano. Eliminai le cosiddette tematiche «inusuali » o i momenti decisivi, per lasciare spazio a una forma di cinepoesia che proponesse costantemente immagini significative.
L’opinione fu divisa sul risultato ottenuto, ma vincere il Leone d’Argento alla Mostra Internazionale del Cinema documentario di Venezia aiutò a spianarmi la strada per i miei passi successivi. Il film successivo fu Ishi no uta (La canzone delle pietre, 1960). Il punto di partenza era l’idea del rifiuto del valore informativo del materiale. Le pietre sono il tema, è chiaro? Le rocce non dicono una parola. Inoltre, quest’opera cinematografica rappresenta, in forma rielaborata, ciò che in precedenza era stato realizzato con la fotografia.
Quindi fu doppiamente rifiutato dal cinema. In molti casi le pietre erano considerate simbolo della morte, ma i tagliatori di pietra che lavorano nella cava di Shikoku, quando la estraevano e la levigavano, non dicevano “La roccia sta gradualmente prendendo forma”, bensì ”La roccia sta gradualmente prendendo vita”.
Sentendo questo, mi colpì il fatto che lo stesso si poteva dire per la produzione di un film. Se un film, partendo da un punto molto distante dal cinema, ovvero dalla morte del cinema stesso, inizia a respirare, non si può dunque dire che ”prende vita”? In questo senso il tema del film andava a coincidere, come espressione metaforica, con il profondo silenzio delle pietre e con il cinema stesso, caratterizzato allora da senso di frustrazione e di vuoto, cercando di riportare il respiro della vita a entrambi ».
6. La fase guerrigliera. «Come altri registi provenienti, principalmente, dalla Iwanami Productions, girai il primo film di finzione, Bara no Sortesu, uscito nel 1969. In realtà non avevo intenzione di passare ai lungometraggi o ai film commerciali. Al contrario, considerato che il modello generale di cinema che veniva proposto era caratterizzato da convenzionalismo e inerzia, non volevo diventare un regista professionista. Tuttavia, siccome volevo fare dei film sperimentali e drammatici, mai realizzati prima, stavo invadendo in modo provocatorio l’industria cinematografica, come un guerrigliero. Il mio intento creativo era quello di creare disturbo nello schema, comunemente percepito, di una divisione netta tra fatti e finzione, uomo e donna, oggettivo e soggettivo, mentale e fisico, vero e falso, tragedia e commedia. I temi affrontati furono la vita omosessuale e il movimento studentesco: in quanto il film risale allo stesso periodo di For the damaged right eye, probabilmente ilmateriale era simile;ma in termini di forma ho smantellato la struttura narrativa sequenziale e cronologica e ho fuso passato e presente, realtà e fantasia su identiche assi temporali, come nella pittura cubista, adottando una forma frammentata, a collage, che trae spunti da letteratura, teatro, pittura emusica, dal vecchio e dal nuovo, dall’Oriente e dall’Occidente. A suo tempo non ero perfettamente cosciente di cosa significasse tutto ciò; ovvero una relazione con il concetto di postmoderno che emerse in una fase successiva. In un certo senso, questo tipo di rifiuto del mondo ordinato e regolato della legge dualistica della prospettiva è un modo per iniziare a parlare di modernità. Muovendosi in questa direzione, ilmoderno viene demolito nel momento in cui la fiction è analizzata nella sua totalità.
Invece di criticare il moderno sulla base del pre-moderno, il concetto che voleva trasparire in Bara no Soretsu era quello di fare emergere il moderno per poi demolirlo, analizzandolo a fondo.
Poiché allora gli scontri politici sul rinnovo del Trattato di Sicurezza Nippo-Americano furono molto aspri, fui pesantemente criticato per la realizzazione di questo film. Fui anche denunciato, benché non fosse mia intenzione entrare nel merito del Trattato; volevo piuttosto evidenziare dei movimenti più profondi nei valori e nei modi di percepire il mondo, che a mio avviso minacciavano la modernità stessa».
7. Postmoderna «interiorità» «Se i film di sinistra più sterili si erano occupati di esteriorità, quelli della fase successiva, postmoderna, furono ossessionati dall’interiorità, dalla forma diaristica, dal racconto in “prima persona maschile singolare”. Nessuno cercava di collegare i due spazi.
Questo è il motivo per cui, sebbene riconosca l’importanza di questi film diaristici come sorta di documentario soggettivo, non li realizzai in prima persona.
Un motivo è l’esistenza del tradizionale watakushi shosetsu ovvero il “romanzo dell’io”, tipico della realtà giapponese, e il pericolo che questi film si ricollegassero a quel tipo di individualità isolata, o, se messi in relazione a esso in modo errato, venissero addirittura sopraffatti dagli otaku.
Mi chiedo se questa tendenza abbia un limite. Inizialmente all’individualità, come fattore “privato”, venne data sempre più importanza proprio perchè in contrasto con l’elemento “pubblico”, codificato e istituzionalizzato, di cui abbiamo già parlato.
Sono d’accordo nell’opporre l’uniformità dell’elemento pubblico all’individualità, per distruggere l’elemento pubblico standardizzato, ma mi disturba se tale individualità diventa quella di un otaku. Questo è un motivo. L’altro si ricollega all’”Io” che si trova nel “Penso, quindi sono” di Cartesio, all’”Io” del “cogito” moderno che crea un sè indipendente, attraverso l’opposizione al mondo. Allora, ci sono dei problemi con l’”Io” che non dubita del “sé” e i cosiddetti “film dell’Io” o watakushi eiga condividono questi problemi: nonmettono mai in dubbio il loro “Io”. In quanto non tentano di relativizzare se stessi, rapportandosi al mondo esterno, diventano gradualmente autosufficienti – in una sorta di armonia prestabilita.
La fedeltà a questo sè identico a se stesso è correlata a qualcosa di simile al mito moderno dell’individualità.
In questo senso sono più che ottimisti. Questa tendenza si è stabilizzata anni fa ed è diventata un sistema a sè stessa».

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