Tuesday, September 6, 2011

Edward Lear







There was an Old Man of New York, Who murdered himself with a fork;
But nobody cried though he very soon died,-
For that silly Old Man of New York.

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Umori d'Albione: Il libro dei nonsense di Edward Lear
di martino negri
















Alice cominciava a non poterne più di stare sulla panca accanto alla sorella, senza far niente; una volta o due aveva provato a sbirciare il libro che la sorella leggeva, ma non c’erano figure né dialoghi, «e a che serve un libro», aveva pensato Alice, «senza figure e senza dialoghi?» [1]


Il libro dei nonsense di Edward Lear, finalmente pubblicato da Einaudi in edizione economica [2], con testo a fronte, è una raccolta di brevi componimenti in versi accompagnati da altrettante vignette disegnate dall’autore, alle quali i primi sono indissolubilmente legati. Caratterizzati da una medesima, rigorosa struttura compositiva e da un gusto letterario eminentemente ludico, i limericks – come sono universalmente conosciuti, sebbene Lear non li abbia mai chiamati in tal modo [3]– si inseriscono nella ricca tradizione britannica della letteratura nonsense: scevra da ogni impegno di natura didascalica o morale e intesa piuttosto al puro diletto degli occhi e del pensiero.

Lear iniziò a disegnare «buffi animali e omini, spesso accompagnando i disegni con versucoli scherzosi, che rappresentano il seme delle future rime nonsensical» [4], negli anni ’30 dell’Ottocento, a uso e consumo dei nipoti e pronipoti di Lord Stanley, dodicesimo conte di Derby, dal quale aveva ottenuto l’incarico di raffigurare gli animali che vivevano nel serraglio della sua tenuta di Knowsley Hall.

Pubblicati tra il 1846 (A Book of Nonsense) e il 1871 (More Nonsense, Pictures, Rhymes, Botany, etc.), i limericks di Edward Lear, o learics come alcuni li chiamano [5], sono considerati un classico della letteratura britannica per l’infanzia.
Il merito di Lear fu quello di portare a una più rigida codificazione, nonché a una maggior diffusione, una forma letteraria che affondava le sue radici nella tradizione orale – filastrocche, ninna-nanne – ma che aveva, già al suo tempo, conosciuto l’onore della carta stampata; tra il 1820 e il 1822 erano infatti comparsi tre volumetti di poesie illustrate che presentavano la struttura metrica e i temi tipici del limerick leariano: The History of Sixteen Wonderful Old Women, illustrated by as many engravings: exhibiting their principal Eccentricities and Amusements (1820), Anecdotes and Adventures of Fifteen Gentlemen (1821) e Anecdotes and Adventures of Fifteen Young Ladies (1822) [6], i quali si inserivano nel contesto dello straordinario sviluppo che la prima editoria illustrata di massa – appoggiata «sull’invenzione e la messa a punto della litografia e sul perfezionamento della tecnica riproduttiva delle incisioni su legno» [7]– ebbe proprio nel terzo decennio del XIX secolo.

Il limerick, dunque – inteso come forma poetica mista di versi e disegni, con caratteristiche formali e tematiche riconoscibili e costanti – esisteva già molto tempo prima che Lear cominciasse a scriverne, anche se furono proprio i suoi a decretare il definitivo successo e la straordinaria diffusione del “genere”. Consistenti in singole strofette di cinque righe [8], con versi a ritmo giambico anapestico – comune nella poesia ‘umoristica’ inglese – e schema di rime aabba, i limericks hanno tre versi di tre piedi (i primi due e l’ultimo) e due più brevi, di soli due piedi (terzo e quarto verso).

There was an Old Person of Pinner,
As thin as a lath, if not thinner,
They dressed him in white,
And roll’d him up tight,
That elastic Old Person of Pinner. [9]

Ogni composizione introduce un personaggio bizzarro che agisce o patisce situazioni che esorbitano dalla sfera della logica e del buon senso comune, lasciando il lettore di stucco. L’eccentricità di comportamenti o situazioni è il perno intorno al quale ruota il meccanismo del divertimento; ma a innescarlo sono il tono del racconto – «ovvio, tranquillo, privo di qualsiasi moto di stupore» [10] – e la presenza dei disegni, che danno corpo visibile al cortocircuito logico suggerito dalle parole. Significativo, in questo senso, appare il titolo della più antica raccolta di limerick conosciuta – la già citata Storia di Sedici Meravigliose Vecchiette, illustrate con altrettante incisioni: le quali mostrano le loro principali Eccentricità e Spassi – nel quale è sottolineata l’importanza che in tale forma poetica assumono sia l’elemento visivo (le incisioni, tante quante sono le storie) sia il motivo dell’eccentricità, ovvero di una distanza dalla norma che disorienta e produce allegria, divertimento. Lear stesso decise di aprire il suo primo volume di rime ‘senza senso’ con un limerick che pare quasi una dichiarazione di poetica:

There was an Old Derry down Derry,
Who loved to see little folks merry;
So he made them a book,
And with laughter they shook
At the fun of that Derry down Derry.[11]

Egli dunque non inventò il “genere”: si limitò piuttosto a perfezionare ciò che la tradizione gli offriva, limitando le varianti possibili allo schema di base e accompagnando i versi con illustrazioni stilizzate e surreali, connotate – in senso espressivo – assai più di quelle presenti nelle prime raccolte pubblicate. Ed è facile notare come la maggior parte dei limericks leariani non solo segua rigorosamente lo schema di rime e il ritmo stabiliti dalla tradizione, ma utilizzi anche alcune “formulae verbali” – come le chiama Marco Graziosi – ricorsive e limitate [12].

Il primo verso introduce il personaggio, del quale – o della quale – è generalmente indicato il luogo di provenienza o quello in cui si sviluppa la sua azione:

a) There was an Old Man of the Hague,

b) There was an Old Man in a Marsh

Nel secondo verso trova spazio la caratterizzazione del personaggio, del quale si raccontano abitudini insolite o particolarità fisiche e d’indole:

a) Whose ideas were excessively vague;

b) Whose manners were futile and harsh;

Terzo e quarto verso sono in genere strettamente narrativi, assumendo addirittura, spesso, la forma dialogica: mentre il primo e il secondo verso offrono una visione in qualche modo extra-temporale del personaggio, questi ultimi lo collocano in un punto preciso del tempo, il momento cruciale della sua fulminea esistenza, quello, anzi, in cui il suo destino pare compiersi e trovare un senso o, ancor meglio, un ‘non senso’.

a) He built a balloon
To examin the moon,

b) He sate on a Log,
And sang Songs to a Frog,

L’ultimo verso, infine, ricalcato sul primo, chiude la composizione riportando l’attenzione sul personaggio, al quale viene ora attribuito un aggettivo nel quale, come in un emblema, sia racchiusa la sua natura più profonda.

a) That deluded Old Man of the Hague. [13]

b) That instructive Old Man in a Marsh. [14]

Significativa – tra le ‘formule verbali’ ricorrenti – quella iniziale, ‘There was...’: presente in tutti i limericks leariani, la sua funzione è la stessa che riveste, nelle fiabe di ogni tempo, l’espressione italiana del “C’era una volta...” [15] , ovvero di introdurre il lettore in un mondo altro, una dimensione parallela ma distanziata nello spazio e nel tempo, in cui non vigono le categorie, immaginative e razionali, alle quali abitualmente ci si attiene.
L’universo in cui vivono i personaggi di Lear, infatti, è «l’incongruità trionfante. È l’assurdo trasportato in un’atmosfera poetica. È una felice vacanza dal mondo dei sensi, un rapido scorcio d’un altro mondo...»[16].


Un rapido scorcio di un altro mondo, scrive John Boynton Priestley, utilizzando un’espressione che se da un lato sottolinea l’immediatezza, la rapidità con la quale Lear riesce a tratteggiare i suoi personaggi – la cui vita pare condensarsi in un unico gesto o avventura emblematici – dall’altro induce alla tentazione di accostarlo a un suo contemporaneo francese, inventore anch’egli di universi paralleli: Grandville, che dava alle stampe il suo libro più complesso, il celebre e bellissimo Un autre monde, nel 1844, giusto un paio d’anni prima del Book of Nonsense di Lear.
Fitta, in entrambi, la presenza di pesci, uccelli e altre bestie con i quali una varia umanità interagisce, dando vita a situazioni paradossali, o ai quali le persone finiscono per assomigliare [17]: eppure Lear non si serve degli animali, come invece fa Grandville, per portare avanti un discorso fortemente polemico – per quanto stemperato dalla satira – nei confronti della società del suo tempo [18].

Legata senza dubbio alle inclinazioni personali dell’artista, che fin dalla prima giovinezza s’era distinto per le sue abilità nella raffigurazione del mondo zoologico, la forte presenza di animali nei limericks leariani è dovuta anche, io credo, al peso di una tradizione favolistica millenaria nella quale – si pensi anche solo a Esopo, oppure a Fedro – proprio loro sono i protagonisti delle storie: con la differenza che nessuna intenzione didascalica, moralistica o pedagogica, muove l’estro di Lear, per il quale parole e figure sono semplicemente trampolini di lancio per qualche felice capriola del pensiero.

There was an Old Man who said, ‘Hush!
I perceive a young bird in this bush!’
When they said, ‘Is it small?’
He replied, ‘Not at all!
It is four times as big as the bush!’ [19]

Oppure

There was an Old Person of Skye,
Who waltz’d with a Bluebottle Fly:
They buzz’d a sweet tune,
To the light of the moon,
And entranced all the people of Skye. [20]


Nel 1861 A Book of Nonsense venne pubblicato in edizione ampliata e fu accolto con straordinario favore dal pubblico: tale successo segnò la consacrazione definitiva della forma poetica e dell’uomo che l’aveva saputa coltivare e distillare, Edward Lear, consideratone spesso non solo il maestro, ma addirittura l’inventore. Da quel momento in poi il genere ha conosciuto sempre più estimatori, e non solo fra i comuni lettori, ma anche fra i grandi della letteratura contemporanea, che ne sperimentarono spesso, e con gusto, anche la declinazione erotica o addirittura triviale [21]:

There was a young plumber of Leigh
Who was plumbing a girl by the sea.
She said: “Stop your plumbing,
there is somebody coming!”
Said the plumber, still plumbing, “It’s me!” [22]

In qualche misura debitore di Lear è persino, io credo, l’americano Tim Burton, che nel 1997 pubblicava The Melancholy Death of the Oyster Boy & Other Stories, uno scarno volumetto di poesie illustrate che si presenta come una galleria tragicomica di creature allucinate ed emarginate, delle quali sono raccontate le vicende amare e straordinarie: ogni poesia introduce un personaggio ed è accompagnata da uno o più disegni dell’autore, a seconda della sua lunghezza [23];ma se in Lear ogni cosa pare fatta d’aria e di luce, di scintilla e di sorriso (anche laddove la morte fa la sua comparsa), in Burton è tutto ctonio e caliginoso, intriso d’angoscia esistenziale e solitudine:

There once was a morose melonhead,
who sat there all day
and wished he were dead.

But you should be careful
about the things that you wish.
Because the last thing he heard
was a deafening squish. [24]

E d’altra parte, lo humour che pervade i suoi versi tende a essere tetro più che nero, a volte persino raccapricciante:

The Boy with Nails in his Eyes
put up his aluminium tree.
It looked pretty strange
because he couldn’t really see. [25]


In Italia la fortuna del limerick è iniziata molto più tardi che in Inghilterra, naturalmente. I pochi che ne conoscevano l’esistenza li facevano girare tra gli amici [26], componendone magari a loro volta, soprattutto di salaci, ma fu proprio Carlo Izzo, traduttore nonché curatore dell’edizione tascabile Einaudi, a darne per primo notizia al pubblico, nel 1935, sul numero di novembre dell’Ateneo Veneto:
E fu ancora Izzo a portare a compimento la prima traduzione in lingua italiana di tutti i limericks del poeta britannico, pubblicata nel 1946 dalla casa editrice Il Pellicano di Vicenza con il titolo di Il libro delle follie [27]; nel 1954 l’editore fiorentino Neri Pozza – che un paio d’anni più tardi avrebbe pubblicato la prima edizione della Bufera di Montale – ne rimise in circolazione [28] le copie invendute, ritirate poco tempo prima dall’editore vicentino che aveva chiuso i battenti.
Nel 1970, infine, Einaudi ripubblicò la traduzione di Izzo – con testo originale a fronte – nella prestigiosa collana "I millenni", sancendone definitivamente il successo anche nel bel paese [29]: nella stessa collana figuravano i maggiori classici della letteratura per l’infanzia, dalle favole di La Fontaine alle fiabe dei fratelli Grimm, da L’isola del tesoro di Stevenson al Giro del mondo in ottanta giorni di Verne [30].

Era stato nell’autunno tragico del 1943 che Izzo, su sprone di alcuni amici[31] aveva deciso d'imbarcarsi nel progetto della traduzione completa dei limericks leariani, trasformando in una sorta di dovere morale quello che fino a quel momento era stato solo un divertimento privato, un’occasione, tutt’al più, per amicali buffi parlamenti. Nel dicembre dello stesso anno aveva già terminato la traduzione. Una traduzione che è diventata, a sua volta, un "classico" della nostra letteratura, nonostante l’inevitabile perdita – nel passaggio alla lingua italiana – di tutta una serie di elementi di natura ritmico musicale nei quali risiede una parte non certo esigua del fascino originario dei limericks.

Perché leggere, oggi, le poesie nonsensical di Edward Lear? Raccontano ancora qualcosa della realtà che ci circonda? L’hanno mai fatto? Non lo so. Eppure sono convinto che leggere – o rileggere – oggi Il libro dei nonsense potrebbe rivelarsi una sana operazione di igiene mentale: viviamo in un’epoca in cui l’oppressione dell’individuo si manifesta in forme più sottili e subdole di quando un gruppo d’amici convinceva un giovane studioso di letteratura inglese a tradurre un’opera folle e intraducibile. Il pregio maggiore del volume di Lear è forse proprio quello di essere semplicemente un libro, un bel libro scritto con piacere, con amore per le parole e i disegni. Punto.
«Ehi! – direbbe molto probabilmente Alice – Ci sono dialoghi... e anche figure!»
Cosa si può desiderare di più da un libro?

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